A Peccioli è presente una nutrita comunità di cittadini albanesi formata da circa 60 persone. Vi raccontiamo la storia di uno di questi, come simbolo di integrazione e di accoglienza della comunità pecciolese.
I Muco, una intera famiglia albanese residente a Peccioli, il cui capofamiglia è Arben, festeggia l’ottenimento della cittadinanza italiana, dopo ben 23 anni di permanenza nel nostro paese. La cerimonia, con la consegna di un diploma di cittadinanza, si è svolta ufficialmente alla presenza del nostro Sindaco, poco più di un mese fa.
Arben nasce nel centro di Tirana il 25 novembre 1961. Il luogo all’epoca è povero, ma i genitori sono operai nel comparto militare e lavorano con continuità, tanto che la famiglia ha tutto ciò che le è sufficiente per vivere, con dignità.
Arben è il maggiore di quattro fratelli e a 17 anni comincia a lavorare per lo Stato.
Fino al 1990 in Albania tutto è gestito dallo Stato, ed è dopo la caduta del regime comunista di Enver Hoxha che tutto il sistema cambierà, passando dal comunismo più rigido a una sorta di democrazia.
L’Albania, in preda ai disordini interni, rimane il paese più povero d’Europa. Qui, in questo terribile periodo di transizione, non si riesce più a trovare lavoro. Arben, accompagnato da uno dei suoi fratelli, ricorda di essere andato per quattro o cinque mesi all’anno, da maggio fino ad agosto 1997, a lavorare in Grecia. Si reca al lavoro a piedi, dopo due giorni e due notti di cammino giunge nei pressi di Ciranico e Larissa, dove raccoglie ciliegie, uva, pesche. Arben ricorda quel periodo molto difficile della sua vita, quando dorme fuori, in campagna e si lava con l’acqua fredda della montagna.
Lo Stato albanese si ritrova all’inizio degli anni ’90 in una situazione molto difficile, quando viene alla luce l’arretratezza economica che il precedente regime ha lasciato dietro di sé. La transizione ha un forte peso sulla vita sociale, non solo a causa del passaggio da un’economia di stampo comunista applicata secondo una forma assai rigorosa di marxismo, ma anche per dell’isolamento totale della nazione dal resto dell’Europa. Non a caso, in quegli anni, molti albanesi, soprattutto giovani, emigrano, cercando all’estero condizioni economiche migliori. Nel paese, intanto, si diffonde la delinquenza e il crimine organizzato.
Il nuovo governo democratico albanese intraprende nel 1992 molte riforme sul piano economico, subito dopo il crollo del PIL di oltre il 50%. Tra le varie imprese finanziarie, si formano anche “imprese piramidali”, che funzionano come banche, ma che promettono agli investitori un tasso di interesse molto alto. Questo fa sì che numerosi albanesi approfittino di quei rendimenti promessi per investire denaro. Anche se un numero di loro, seppur molto limitato, si vede restituire una cifra molto superiore a quella depositata (fatto di proposito per fini di propaganda), nel gennaio del 1997, la maggior parte di queste imprese falliscono e un terzo delle famiglie albanesi perdono i loro risparmi. Questo causa molte proteste popolari a Tirana e in tutte le città meridionali del paese. Diverse persone rivolgono le loro richieste al governo, il quale (prima del crollo) aveva rassicurato sulla legittimità di tali imprese. Il governo, però, non si assume alcuna responsabilità, visto che la frode appare opera di investitori privati. Anche Arben dice di aver perso gran parte dei suoi risparmi dell’epoca in queste manovre finanziarie delle imprese finanziarie piramidali.
I disordini iniziano con le rivolte di gennaio e febbraio, durante le quali si alternano le dure repressioni della polizia con le feroci reazioni della popolazione nelle piazze. Ai primi di marzo, nell’Albania meridionale, e soprattutto nella città di Valona, le proteste diventano violente: molti civili riescono ad avere accesso ai depositi di armi, prelevandone una grande quantità. La polizia di Stato non è più in grado di arginare la ribellione e così l’allora Presidente della Repubblica, Sali Berisha, dichiara lo stato d’emergenza.
I ribelli avanzano distruggendo edifici governativi e uffici di polizia, senza però avere uno scontro armato diretto con forze dell’ordine o con militari albanesi. Già il 4 di marzo i ribelli conquistano quattro città del sud, senza incontrare una forte resistenza e, anzi, con l’appoggio della popolazione. Da lì giungono infine a Tirana, la capitale. Solo una modesta parte del territorio albanese è ancora sotto il controllo dello Stato. Nelle zone settentrionali del paese si crea una situazione di anarchia, mentre nel meridione e nelle zone centrali (soprattutto Tirana, Durazzo, Valona, Elbasan, Lushnjë), il territorio cade nelle mani di diverse bande armate. I depositi di armi vengono saccheggiati in tutta l’Albania e la maggior parte degli albanesi è ora munita di fucile, quando non di armi pesanti, ormai di facile reperibilità.
Arben ricorda gli spari dei kalashnikov che risuonano fuori dalle finestre della sua abitazione. In questo quadro disastroso riprende l’emigrazione verso l’Italia, contrastata dalla Marina Militare Italiana con azioni che portano persino al tragico naufragio della Katër i Radës. I paesi esteri organizzano operazioni militari per rimpatriare dall’Albania i propri concittadini. Nel mese d’aprile, anche su richiesta dei politici albanesi, l’ONU autorizza l’invio in Albania di settemila soldati italiani nell’ambito dell’Operazione Alba, per ristabilire l’ordine nel paese.
Avviene nel 1998, nel pieno della guerra civile scoppiata in Albania, che Arben, all’età di 37 anni, decida di sacrificarsi per la famiglia e intraprenda con coraggio un viaggio con il gommone che lo porterà in Italia. Parte da Durazzo in un furgone verso l’una di notte e si trova stipato insieme agli altri, fortunatamente è accanto a un finestrino rotto, da cui riesce a respirare. E poi il viaggio continua da Valona, dove si imbarca nel pieno della notte su un gommone, senza conoscere nessuno degli altri passeggeri. “Troppa la paura che ho avuto”, dice “in questo viaggio al buio, affrontato senza alcuna sicurezza. Per tre volte le ondate durante la traversata sommergono il gommone e lui ha timore di morire, affondando insieme alla barca. Le gambe di Arben sono rannicchiate, tanto da bloccargli la circolazione. Lui si trova in cima al gommone e davanti, accovacciato, si trova un altro uomo che con la cintura dei pantaloni gli lacera la pelle. Lo spazio è minimo, ventotto persone sono ammassate sull’imbarcazione. Arben afferma che se dovesse riaffrontare quella traversata verso l’Italia non avrebbe più il coraggio di farlo!
Da Brindisi, il luogo dello sbarco, si sposta ad Acquaviva, dove, ospitato dalla sorella, rimane per due anni a lavorare in agricoltura. Ad Acquaviva nel 2001 lo raggiungono la madre, la moglie Bianca e il figlio Fabiol (nato anch’egli in Albania nel 1991), che frequenta lì le scuole elementari.
E’ nel 2000 poi che Arben si sposta a Peccioli, dove già si trovano i parenti della moglie Fatbardha (da tutti noi conosciuta come Bianca). Qui ha sempre lavorato nei vigneti, come muratore e dal 2002, stabilmente, come operaio in una cooperativa di pulizie, dove è assunta anche la moglie.
“Sono albanese e amo l’Albania – dice Arben, ma davvero non ci tornerei. Sono più tranquillo qui. Grazie a Dio sono qua a Peccioli, dove ho sempre potuto lavorare e mantenere la famiglia. La vita è una soltanto, non voglio essere ricco, parlo col cuore, sono tranquillo qua”. Poi aggiunge: “La mia vita non è una storia brutta”, volendo forse dire che non è una storia di cui vergognarsi, perché quando si insegue il sogno di un lavoro onesto, non si perde mai la dignità…