Metallo, fuoco, acqua. Semplici elementi che l’uomo ha imparato a combinare insieme da tempi antichissimi. Quello del fabbro è un mestiere che si pensa possa risalire all’epoca Neolitica, quando l’uomo imparò a fondere il rame, dando così inizio, oltre 7.000 anni fa, all’arte della metallurgia. Non a caso, nella mitologia greca il fabbro degli dei, il dio del fuoco e degli inferi, era figlio di Hera e Zeus (temuto dallo stesso padre), e fu costruttore di palazzi e oggetti utili agli dei come il tridente di Poseidone, il carro del sole, spade ed elmi. Efesto, noto anche con il nome di Vulcano nella mitologia romana, che aveva la sua leggendaria fucina alle pendici dell’Etna, conferì alla figura del fabbro e alla sua arte, un’aurea magica che lo ha accompagnato fino ai nostri tempi. Il fabbro, demiurgo e artefice, è in grado con l’ausilio dell’acqua e del fuoco di plasmare la materia, e così come il medico o l’astrologo, faceva parte di quella categoria di uomini il cui lavoro è stato importantissimo per il resto dell’umanità.
Fino alla metà degli anni sessanta, il fabbro come gli artigiani, in generale, svolgevano un ruolo fondamentale nella vita e nell’economia dei paesi. Producevano di tutto, attrezzi, recipienti e contenitori di ogni genere, calzature per le famiglie dei contadini, semplici mobili, oggi detti arte povera, abiti, oltre a fornire ogni genere di servizi di riparazione. C’erano falegnami, carpentieri, fabbri, maniscalchi, stagnini, bottai, ciabattini, sarti e sartine, mugnai e fornai. Tutto questo appartiene ormai al passato. Tradizioni di vita ancestrali delle comunità rurali sono state cancellate lentamente nel corso degli anni ’70 e ’80. I prodotti dei nostri abili artigiani sono stati inesorabilmente sostituiti da quelli della produzione industriale di massa, a buon mercato.
Eppure, qualche vestigia di mestieri antichi resiste da qualche parte. Se vi capita di essere a Ghizzano e di passeggiare tra i vicoli del borgo, potrete ancora sentire un martello che batte su un’incudine. È Daniele Nencioni che lavora nella sua bottega. È un fabbro, così almeno, con sincera umiltà, si presenta, forse l’ultimo di una tradizione di mastri ferrai. In realtà, è uno straordinario artigiano.
Daniele Nencioni è nato a Ghizzano il 3 agosto del 1944 e la sua è una famiglia di ghizzanesi e di fabbri da tre generazioni. “Mio nonno l’ho conosciuto poco, ero piccolo, 6-7 anni” e con orgoglio ci racconta che “Il cancello della Villa Venerosi Pesciolini, da cui si accede alla scalinata, lo fece il nonno insieme al mio babbo”. Iniziamo a chiacchierare all’interno del negozio che si affaccia su Piazza della Chiesa, un locale con una grande vetrina in cui sono esposte le sue opere di ingegno, da sculture a testate di letti, da ringhiere ad attaccapanni, tutto rigorosamente in ferro battuto e ideato da Daniele.
L’attività di fabbro venne iniziata da suo nonno, soprannominato “fabbrino” continuata poi dal padre. Durante la guerra faceva il maniscalco, tornato a Ghizzano aveva continuato a ferrare i cavalli e Daniele fin da piccolo, dall’età di 10-11 anni, lo andava ad aiutare senza tanto entusiasmo. Poi da 13 anni ha iniziato ad accompagnare il padre a Montelopio presso l’azienda Marchi & Marchi, che poi si trasferì a Cecina. Quello è stato il suo primo vero lavoro, che raggiungeva a piedi. “Un tempo i fabbri facevano attrezzi per l’agricoltura” per il consorzio di Pontedera; lui e il padre realizzarono un erpice talmente ben fatto da attirare l’ammirazione e i complimenti della gente. “Io giravo la forgia a mano, siccome non ci arrivavo mio padre aveva fatto dei cuscini, e poi sull’incudine facevamo i pezzi”. Per recuperare il ferro il padre andava dal Taliani a Pontedera con il pullman, prendeva i fascettini di ferro e poi li portava a casa, oppure quando trovava qualche pollaiolo che andava con il cavallo chiedeva di portargli un po’ di ferro. “Quando lavoravo con il mio babbo, prendevo dei pezzi di ferro e facevo delle foglioline, dei riccioli, lui si arrabbiava perché diceva che sciupavo tutto il ferro… Sai quante patte ho preso per le prove che ho fatto. Comunque lo avevo nella testa e quando cominciai a fare delle cose per la gente, mi dicevano che assomigliavo al fabbrino” (suo nonno).
Poi nel 68-69 andò alla Piaggio, dove rimase per 15 anni, “mi volevano fare anche capo ma non accettai e andai via per rimettermi a fare il fabbro”. E lo fece insieme al figlio maggiore, aprendo un’azienda lungo la strada provinciale La Fila di Peccioli, dove trascorsero anni di intensa attività e commissioni dall’estero. Tramite un’interprete di Capannoli, che lo andò a trovare, infatti, iniziò a lavorare per la Francia e per la Russia: “una signora russa acquistò un ulivo in ferro, che portammo a Pisa da cui partiva il suo aereo privato. Da quel momento la collaborazione fu molto intensa, dal momento che questa signora era un’arredatrice”. Passato qualche anno e il cambio di lavoro del figlio, Daniele decise di cercare un fondo a Ghizzano da utilizzare come laboratorio ed esposizione e ancora oggi è lì che mostra le sue creazioni, e dove ogni giorno continua a lavorare il ferro “Io faccio tutto da me, non faccio progetti, la testata del letto la disegnai in terra, le cose vengono da sè, dopo prove e prove”.
Ma si sa, i tempi cambiano e con loro i gusti, il lavoro, la stessa forgia è stata sostituita dal forno a gas, e anche la committenza. Adesso i suoi clienti sono i turisti che passeggiano per le strade del borgo e che vengono attirati dalle sue opere in vetrina oppure gli ospiti dell’azienda Venerosi Pesciolini. Alcune cose però non cambiano mai: il ferro preso dal Taliani, il tempo passato nella sua officina, ogni giorno dalle 8 fino alle 19, e la speranza che qualche giovane ragazzo raccolga la sua eredità e che porti avanti uno dei mestieri più antichi del mondo.
Perché in Valdera Daniele è rimasto l’unico fabbro che continua a lavorare tutto a mano. Durante la sua giovinezza solo nel Comune di Peccioli lavoravano otto fabbri: due a Ghizzano, due a Montelopio, uno a Fabbrica e tre a Peccioli, di cui ricorda i nomi “il rossi” e “chiodo”. Molti continuano a lavorare il ferro ma fanno lavori di carpenteria, più nessuno lavora il ferro a mano. “Il ferro è un materiale povero, se non gli si dà qualcosa di particolare non rimane nulla, e io cerco di dargli tutti versi per renderlo carino”. Quindi approfittiamo della sua disponibilità e gentilezza per scendere le scale, entrare nel suo laboratorio e osservarlo mentre realizza per noi qualche decorazione a foglia e a spirale. Ammirati e rapiti dalla sicurezza e dalla sua maestria, il duro lavoro di modellazione del ferro diventa come una danza e i rumori assordanti del martello che picchia contro l’incudine si trasformano in musica.
Lasciamo
Daniele con un’ultima domanda, a cui risponde commosso “L’opera a cui sono più
affezionato, la prima cosa ho fatto fuori perché la bottega era troppo piccola,
è la cancellata con sopra la rostra della chiesa della Santissima Annunziata,
avrò avuto 20 anni e mi rimarrà sempre nel cuore”.