Gostanza, la strega di Libbiano
GOSTANZA DA LIBBIANO
La storia di Gostanza da Libbiano è una storia vera. Da essa sono stati tratti un film vincitore del Premio della Giuria al Festival di Locarno, nel 2000, a regia di Paolo Benvenuti, fedelmente ispirato agli atti del processo contro Gostanza da Libbiano, tuttora conservati nell’archivio vescovile di San Miniato e un libro, di Franco Cardini, intitolato Gostanza, la strega di San Miniato (Laterza, Bari, 1989), che su tali atti è basato.
La vicenda si svolge nel 1594 tra San Miniato e Lari, nel Granducato di Toscana. «Monna Gostanza da Libbiano» in realtà non era nata a Libbiano e non vi risiedeva al momento dell’arresto. La scelta da parte degli inquisitori di questa località per identificare la donna non fu casuale: Libbiano era infatti il paese nel quale Gostanza si era trasferita una volta rimasta vedova. Gostanza da Libbiano si dichiarò infatti figlia di Michele da Firenze e vedova di Francesco da Vernio; dopo la morte di costui si era trasferita da Ghizzano di Volterra a Libbiano e quindi a Bagno ad Acqua, con ogni probabilità l’attuale Casciana Terme.
Vedova, sessantenne, Gostanza si guadagnava da vivere come filatrice, levatrice e curando gli ammalati, occupazioni allora rischiose che potevano procurare rispetto e gratitudine ma anche inimicizie, cattiva fama, pericolose denunce. Le ragioni che portarono Gostanza di fronte all’Inquisizione devono infatti essere cercate nella situazione contraddittoria in cui veniva a trovarsi una figura come la sua; nella mescolanza di disprezzo, timore e sospetto con cui veniva considerata dai compaesani e dalle autorità. Gostanza, come molte altre vetulae che assistevano le donne al parto e si dedicavano alla medicina popolare, era una donna sola, marginale, ma tuttavia dotata di un certo potere e di un certo ambiguo prestigio che le derivava delle sue vere o presunte capacità taumaturgiche. Una donna alla quale molti erano spinti a rivolgersi nei momenti di maggiore necessità, come i parti o le malattie. D’altro canto, proprio in virtù di questi poteri, naturali o soprannaturali (la distinzione era all’epoca meno ovvia di quanto oggi non apparirebbe) queste dominae herbarum, erano temute e spesso odiate. Inoltre, dal tardo medioevo ma ancor più nell’età della Controriforma e dello sforzo della Chiesa cattolica per sradicare quelle credenze popolari, la guaritrice, prima tacitamente tollerata, era diventata una figura sospetta e l’origine dei suoi poteri veniva attribuita a un patto con il demonio. Anche per la gente comune, dunque, i confini fra conoscenza empirica dei rimedi vegetali, magia bianca e magia demoniaca si facevano fluidi, e il giudizio dell’opinione pubblica su queste donne pericolosamente incerto. Nel corso del processo, ad esempio, il ciabattino Mastro Pasquino dichiarò inizialmente di «conoscere detta monna Gostanza per donna da bene» ma che quando era «ito per sua negotii a Bagno, ha inteso dire che l’è una strega et maliarda».
Lo scopo dell’interrogatorio fu appurare se Gostanza praticasse la stregoneria, secondo quanto era stato denunciato da una donna del paese che riteneva di essere stata oggetto di una fattura. In una prima fase Gostanza negò decisamente, ma, dopo essere stata sottoposta alla tortura della corda, ammise di essere una strega; tuttavia, successivamente ritrattò la sua confessione, dichiarando di aver mentito per evitare ulteriori sofferenze. Nuovamente sottoposta a tortura, ammise ancora di essere una strega e aggiunse di essere stata iniziata all’adorazione del Demonio da un uomo del contado, compiendo ogni atto comunemente attribuito alle streghe come il volo e la trasformazione in animali. L’anziano vicario manifestò un certo scetticismo e cercò di offrire a Gostanza una via d’uscita; venne tuttavia affiancato da un frate più giovane, Mario Porcacchi da Castiglione, più propenso a credere ai prodigi cui può dar luogo la possessione diabolica.
Nel corso di diversi interrogatori, la strega Gostanza da Libbiano raccontò allora di essere stata iniziata alla stregoneria da Smeralda e Nanna, quando queste la invitarono a chiamare Polletto, un demonio che si era presentato in forma d’asino, di capretto, di cane ed in groppa al quale era giunta nel Paese del Gran Diavolo.
Nella maggioranza dei processi per stregoneria che insanguinarono l’Europa, le streghe incontravano il diavolo entro un contesto agrario. Stavolta tuttavia l’inquisitore ascoltò un racconto assai inconsueto. Gostanza aveva raggiunto una città, più bella di qualunque altra in questo mondo, addirittura più bella che Firenze; così almeno affermò la presunta strega per spiegare, perfino ad un inquisitore, lo splendore di quel luogo aureo, ove i demoni vestivano bene, di tutte le sorte colori, et sontuosamente et riccamente.
Ciò che si svolgeva nella città era meno originale, non differendo troppo dai consueti racconti del sabbat stregonico, resi sempre più mirabolanti ed incredibili, purtroppo, dal prolungarsi della prigionia, degli interrogatori e delle torture. Gli invitati ballavano, scherzavano, mangiavano prelibatezze di ogni genere, facevano sesso, Gostanza era la prediletta di Satana in persona.
Sebbene interessassero soltanto secondariamente l’inquisitore, meno diabolici ma più reali, emersero dal processo anche altri elementi su quella che doveva essere l’attività della strega Gostanza. Ella curava i malati con le erbe ed in altri modi.
Indumenti ed oggetti personali stabilivano un forte legame con il proprietario, tanto che esaminandoli si poteva scoprire quali malattie lo affliggessero e medicarlo a distanza, “moltissime sorte di mali con il misurare et vedere li panni…con la grazia di Dio n’ho guariti moltissimi”. Nella pratica rivelata da Gostanza, la preghiera cristiana si legava infatti inestricabilmente all’intervento della guaritrice, tanto più che la donna, umilmente, rimandava al Signore il merito dell’eventuale buona riuscita delle sue cure.
Nella casa dell’inquisita, i persecutori trovarono vasi, piccoli fiaschi, bicchieri ed altri recipienti, contenenti molte sostanze vegetali, tra le quali l’olio di pilatro, di metadella, l’erba betonica, la noce moscata. Altre prescrizioni ai malati richiedevano invece banali polli, capponi, uova. L’unico oggetto vagamente rituale, scoperto dal Porcacchi, fu quello di una candela bianca, proveniente dalla liturgia del Sabato Santo, utile ad alleviare le doglie del parto, come nel caso di alcune parenti del prete di Libbiano, dal cui fratello Gostanza aveva ricevuto la candela.
Le piante impiegate da Gostanza trovavano corrispondenze nell’erbario utilizzato dai medici delle università del tempo, ma specialmente a seguito del Concilio di Trento, con severità, la Chiesa si era impegnata per riservare la medicina ai dottori ufficiali. Saggiamente, Gostanza aveva tentato di tacere sulla sua professione, sufficiente a renderla sospetta di stregoneria ma per una guaritrice conosciuta in tutto il Valdarno inferiore, tra i fiumi Era ed Elsa, nascondersi non poteva che essere arduo; perfino il medico “ufficiale” di Peccioli la conosceva e le si affidava quando stava male.
La situazione processuale pareva davvero pericolosa. Tuttavia a partire dalla fine del XVI secolo, almeno in Italia, l’Inquisizione era andata facendosi più cauta nel condannare le streghe. Nel frattempo del caso di Gostanza s’iniziò a parlare anche nelle alte gerarchie ecclesiastiche, tanto che giunse da Firenze, il francescano Dionigi da Costacciaro, inquisitore titolare della provincia; già il Papa aveva considerato la sua figura per la carica di ministro generale, la più alta autorità dell’Ordine Francescano.
Frate Dionigi esaminò Gostanza, che da prima ripeté le sue precedenti confessioni. Nei giorni precedenti la donna aveva compreso come i tentativi di ritrattare non conducessero che a subire nuove torture; poi innanzi ai dubbi sugli incredibili racconti del sabbat, sollevati dal nuovo giudice, Gostanza trovò il coraggio per dichiararsi un’ultima volta innocente, non era una strega. L’anziano frate inquisitore credette a queste ultime verità.
Poco tempo dopo, al dì 29 novembre, il vicario vescovile, rinunciò ufficialmente al processo in favore dell’Inquisizione. Porcacchi dovette ubbidire al suo superiore che gli rimproverò di avere fatto sciocherie, immischiandosi in un affare del vescovato lucchese; “cotesta povera vecchia il tutto ha detto per tormenti e non è vero nulla”.
Infine, Gostanza fu rilasciata ma venne bandita dal suo paese col divieto di praticare ancora l’erboristeria e la farmacopea. Andò poi ad abitare nel territorio di Chianni, nella diocesi di Volterra.
Bibliografia
Franco Cardini (a cura di), Gostanza, la strega di San Miniato, Laterza, Bari-Roma, 1989
Laura Caretti, Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti, ETS, Pisa 2000
Riccardo Cardellicchio, La strega e il vicario, Sarnus, 2010
Gostanza da Libbiano, film di Paolo Benvenuti, con Lucia Poli, Valentino Davanzati, Renzo Cerrato (Italia, 2000)
Vittorio Beonio Brocchieri, Gostanza da Libbiano, in Enciclopedia delle donne